“Il filo d’Arianna non serve a non perdersi: serve a sapere di essersi persi.”
— Jean-Bertrand Pontalis
I miti non sono soltanto racconti antichi: sono mappe dell’anima, dispositivi simbolici che rivelano ciò che le parole ordinarie non sanno dire. Tra questi, il mito di Teseo e del Labirinto spicca per la sua densità psichica. Il Labirinto non è soltanto uno spazio architettonico, ma un paesaggio interiore, tortuoso e sotterraneo, popolato di mostri e minacce, ma anche ricco di possibilità trasformative.
In questo saggio attraverseremo il mito con uno sguardo psicoanalitico, traendo spunto da Freud, Jung e da alcuni loro eredi. Ci interrogheremo su concetti come Ombra, desiderio, funzione simbolica, trasformazione e soggettivazione. Il percorso di Teseo diventerà così una metafora vivente del lavoro interiore, del confronto con il rimosso, e della difficile arte del ritorno a sé stessi.
Re Minosse, per vendicare la morte del figlio, impone ad Atene un tributo disumano: ogni nove anni, sette fanciulli e sette fanciulle devono essere offerti al Minotauro, creatura mostruosa rinchiusa nel Labirinto costruito da Dedalo.
Teseo, principe ateniese, si offre volontario per porre fine a questo ciclo di orrore. Giunto a Creta, riceve l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, che gli dona un filo per poter ritrovare la via d’uscita. Dopo aver ucciso il Minotauro, Teseo riesce a uscire dal Labirinto seguendo il filo.
È questa discesa, confronto e ritorno la porzione che ci interessa: una parabola dell’anima alle prese con le sue zone oscure.
Il Labirinto è l’immagine archetipica dell’inconscio: un territorio in cui si perde la bussola del pensiero lineare, dove l’Io non ha più controllo. Costruito da Dedalo – l’ingegno privo di etica – è un'opera perfetta nella sua insidia: senza centro visibile, senza mappa, senza uscita apparente.
È qui che inizia la vera psicoanalisi: non sulla superficie dell’Io, ma nelle sue fenditure, nei suoi vicoli ciechi. Il Labirinto è il simbolo del momento in cui la coscienza non può più contenere il conflitto interno, ed è costretta a scendere.
Hillman ci ricorda che l’anima non si sviluppa secondo linee rette. Si annoda, si perde, si contraddice. Solo nel labirinto la psiche può abitare la propria complessità.
Al centro del Labirinto vive il Minotauro: mostro mezzo uomo e mezzo toro, nato da un atto innaturale. È il frutto di un desiderio aberrante, di una trasgressione mitica, ma soprattutto è il rimosso della coscienza collettiva.
In termini junghiani, il Minotauro è l’Ombra: la parte esclusa, censurata, che però non cessa di pulsare e chiedere riconoscimento. È la rabbia non espressa, il desiderio selvaggio, il trauma non elaborato. Non è il male in sé, ma ciò che non è stato ancora integrato.
Uccidere il Minotauro – se letto simbolicamente – non significa distruggere una parte di sé, ma affrontarla. Renderla dicibile, trasformarla. È questo il gesto analitico per eccellenza: accogliere ciò che fa paura per riconoscere la propria interezza.
Teseo non è soltanto l’eroe classico: è l’Io che decide di affrontare la propria crisi. Il suo offrirsi volontario è un gesto fondativo: è colui che sceglie di non delegare, di non rimuovere, ma di calarsi nella profondità dell’esperienza.
Nella stanza d’analisi, Teseo è l’analizzando: entra nello spazio-labirinto con il desiderio di guarigione ma anche con la paura di non tornare. Si confronta con il proprio Minotauro, e la posta in gioco non è la vittoria, ma la trasformazione.
Ogni passaggio psichico – dall’adolescenza al lutto, dalle crisi d’identità alla depressione – ripete, in forma singolare, la struttura di questo viaggio.
Arianna è spesso ricordata solo come l’innamorata tradita. Ma dal punto di vista simbolico, è molto di più: è la figura del femminile psichico, della capacità di tenere insieme, di legare, di simbolizzare.
Il suo filo non è solo un oggetto magico: è la memoria narrativa, la possibilità di ritrovare un senso nel disorientamento. È l’alleanza terapeutica, il discorso che rende possibile l’elaborazione. Senza Arianna, l’impresa di Teseo resterebbe un trauma.
Eppure, Arianna viene abbandonata. Questo gesto rivela una verità psichica profonda: l’Io, per affermarsi, spesso rinnega le proprie radici relazionali. Ma dimenticare Arianna è dimenticare il senso del viaggio.
Ogni mito d’iniziazione implica una perdita. E il mito di Teseo non fa eccezione. Tornato ad Atene, dimentica di cambiare le vele della nave. Il padre, vedendole nere, si uccide.
Questo gesto introduce l’elemento del lutto: ogni processo individuativo comporta la morte simbolica di una parte di sé – dell’infanzia, della dipendenza, dell’ideale paterno. Teseo torna, ma non è più lo stesso. Ha perso l’innocenza, ha ucciso il mostro, ma ha anche inaugurato una nuova solitudine.
La trasformazione psichica non è mai trionfale: è ambigua, dolorosa, ma necessaria.
Il mito di Teseo si rivela uno strumento clinico prezioso nei momenti di crisi, separazione, trauma. Può guidare:
Il racconto mitico non impone un significato: lo evoca. Rende pensabile l’impensabile. Offre una forma al disordine interno, trasformando il dolore in racconto condivisibile.
Il vero messaggio del mito non è l’uscita, ma la capacità di restare nel Labirinto senza perdersi. Non per evitarlo, ma per abitarlo. Perché la psiche non è lineare, ma una trama complessa di ritorni, di bivi, di ripetizioni.
L’eroe non è colui che non ha paura, ma colui che dà un nome alla propria paura. In un tempo che idolatra l’efficienza e rifugge la complessità, tornare ai miti significa ridare dignità al disordine interiore, al tempo lungo della trasformazione.
E forse, oggi più che mai, il filo d’Arianna non è ciò che ci fa uscire, ma ciò che ci permette di ricordare chi siamo mentre attraversiamo il nostro personale dedalo.
Dr. Davide Dellai
P.I. 04157450240
Ordine degli Psicologi del Veneto n. 10528
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