Ci sono persone che sembrano vivere al di fuori del tempo ordinato degli altri. Cambiano idea all’improvviso, si lasciano trascinare da un’emozione, da un’intuizione o da un capriccio. Sono capaci di entusiasmi brucianti e improvvisi ritiri, di gesti intensi e poi di lunghe assenze.
La loro presenza affascina e irrita: sono figure che destabilizzano, ma anche che fanno sentire la vita più viva.
In loro qualcosa sfugge alle regole della prevedibilità. Ci attraggono perché, nel loro disordine, intravediamo una libertà che abbiamo smarrito. La loro impulsività, il loro muoversi fuori dal controllo, tocca una parte di noi che desidera ancora lasciarsi andare, nonostante tutto.
Dietro a questa forza ambivalente — magnetica e faticosa — si nasconde un tratto di personalità che la psicologia chiama disinibizione: la tendenza ad agire sull’impulso, a rispondere immediatamente al desiderio, con scarso filtro e poco differimento. Ma, al di là della definizione comportamentale, la disinibizione racconta qualcosa di più profondo: una lotta psichica per l’affermazione di sé.
Dal punto di vista psicodinamico, la disinibizione non è semplicemente mancanza di autocontrollo. È piuttosto una modalità dell’Io di affermare la propria presenza nel mondo.
Attraverso il gesto impulsivo, il soggetto dice implicitamente: “Io ci sono, io scelgo, io posso.”
È una ribellione al principio di realtà, un tentativo di riaffermare la sovranità dell’Es contro la tirannia del Super-Io.
Il soggetto disinibito, anche quando agisce in modo caotico o contraddittorio, mette in scena una battaglia interna: non essere colonizzato dall’altro, non farsi determinare, non sottomettersi alla legge del controllo.
Ogni impulso diventa un atto di libertà, un piccolo sabotaggio contro l’ordine delle regole e delle aspettative.
Ma questa libertà è fragile, perché è spesso una libertà contro: un gesto che nasce dall’urgenza di non dipendere, più che dal piacere di creare.
Quando la disinibizione non trova un contenimento simbolico, si trasforma in una forma di affermazione dell’Io a discapito dell’altro: un modo per dire “io” annullando la possibilità del “noi”.
Sotto la superficie apparentemente vitale della disinibizione si nasconde spesso un vuoto.
Molte persone impulsive vivono un senso di discontinuità del Sé: se non agiscono, si dissolvono; se non producono un gesto visibile, perdono la percezione di esistere.
Il movimento rapido, la decisione improvvisa, la parola tagliente o la trasgressione servono a ripristinare un senso di consistenza psichica, come se il soggetto avesse bisogno di sentire il proprio contorno attraverso l’azione.
L’atto impulsivo diventa allora una forma di auto-affermazione momentanea, un anestetico contro la sensazione di insignificanza.
È come se, nel profondo, la persona dicesse: “Io esisto perché agisco. Se mi fermo, scompaio.”
In questa prospettiva, la disinibizione non è tanto un eccesso di energia vitale, quanto un tentativo di riparare una fragilità identitaria.
L’impulso serve a tenere insieme frammenti del Sé che non riescono a coesistere, a colmare uno spazio interno troppo vuoto per essere tollerato.
Nelle relazioni, la disinibizione assume una forma particolarmente complessa.
Il soggetto disinibito tende a muoversi nella relazione come un campo di prova della propria esistenza: l’altro diventa lo specchio entro cui testare la propria libertà.
Ma in questa dinamica, l’affermazione di sé può diventare facilmente invasione, e il contatto, un atto di conquista.
La disinibizione relazionale è allora, come tu suggerisci, un atto di affermazione dell’Io a discapito dell’altro: un bisogno di sentirsi vivi anche a costo di non vedere la soggettività altrui.
Questo non deriva necessariamente da narcisismo, ma da un deficit di rappresentazione dell’altro come soggetto separato.
Il disinibito ama intensamente, ma fatica a riconoscere l’altro come diverso: l’altro è ciò che conferma o minaccia la propria identità, non ancora un interlocutore reale.
Il legame è quindi attraversato da una tensione: da un lato il desiderio di fusione, dall’altro la paura di perdersi.
Ogni impulso di libertà nasconde un’angoscia di annullamento.
Il comportamento disinibito può essere letto come un linguaggio corporeo dell’Io fragile.
Quando il soggetto non riesce a nominare la propria rabbia, il proprio desiderio o la propria frustrazione, li agisce.
L’azione prende il posto della parola.
È la logica dell’agito: ciò che non può essere pensato viene messo in scena.
Freud direbbe che l’atto impulsivo è una “azione sostitutiva”, una forma di scarica che impedisce la rappresentazione.
Tuttavia, questo stesso atto contiene una energia vitale che, se accolta e trasformata, può diventare materiale creativo.
L’analisi o la relazione terapeutica offrono uno spazio in cui l’impulso può essere simbolizzato, cioè tradotto in parola, e dunque pensato.
In questo passaggio, l’energia distruttiva diventa potenzialmente generativa.
Qui entra in gioco la tua tesi, che possiamo sviluppare pienamente:
Se la disinibizione relazionale è un atto di affermazione dell’Io a discapito degli altri, allora la sua trasformazione autentica consisterebbe nel farne un atto creativo o generativo.
Nel gesto disinibito c’è sempre un eccesso di energia — una forza pulsionale che cerca uscita.
Quando questa energia è governata solo dal bisogno di autoaffermazione, produce conflitto, rottura, egocentrismo.
Ma quando riesce a passare attraverso la simbolizzazione e l’incontro con l’altro, diventa creatività.
La stessa forza che prima serviva a imporsi può allora servire a creare legame:
l’Io non ha più bisogno di dominare, ma può esprimersi, condividere, trasformare.
Nel campo relazionale, questa trasformazione corrisponde al passaggio da una libertà contro (distruttiva, oppositiva) a una libertà per (espressiva, generativa).
La persona non agisce più per negare la presenza dell’altro, ma per entrare in dialogo con essa, portando nel mondo qualcosa di nuovo.
Perché questa metamorfosi avvenga, serve una funzione di contenimento — ciò che Bion chiamava reverie: la capacità di accogliere gli stati caotici dell’altro, trasformandoli in esperienza pensabile.
Chi vive accanto a persone disinibite conosce bene la fatica di questo compito.
Serve molta tenuta per non reagire con giudizio o difesa, e per restare nel campo relazionale senza collassare nella stessa impulsività.
Il contenimento non è controllo: è una presenza capace di trasformare.
In ambito terapeutico, il lavoro consiste proprio nel offrire un Io ausiliario, che possa reggere ciò che il soggetto non riesce ancora a elaborare.
Nel tempo, il paziente interiorizza questa funzione, e l’energia che prima veniva agita può essere mentalizzata, pensata, usata in modo creativo.
Sarebbe però un errore patologizzare la disinibizione.
In ogni persona c’è bisogno di una quota di disinibizione: è ciò che permette di infrangere la ripetizione, di aprirsi al rischio, di dire “sì” al desiderio.
Il problema non è la disinibizione in sé, ma la mancanza di un Io capace di reggerla.
L’impulso non va represso, ma integrato.
In un certo senso, la civiltà ha sempre cercato di dosare questa energia — troppo poca, e l’individuo diventa sterile; troppa, e diventa distruttivo.
Nel migliore dei casi, la disinibizione rappresenta il ricordo originario della libertà psichica, una nostalgia di quando il desiderio poteva muoversi senza colpa.
Il compito della maturazione non è cancellarla, ma trasformarla in libertà adulta, capace di coniugare spontaneità e responsabilità.
Ogni atto creativo nasce da un gesto disinibito: dal coraggio di rompere la forma precedente, di spingersi oltre ciò che è previsto.
L’artista, l’innovatore, l’amante autentico — tutti, in modi diversi, sfidano la legge della ripetizione.
In questa luce, la disinibizione non è un errore del carattere, ma un’energia primordiale che chiede trasformazione.
Quando viene ascoltata, elaborata e accolta, essa genera bellezza, passione, invenzione.
Quando è negata o agita ciecamente, distrugge.
Il compito analitico e umano è dunque quello di convertire l’atto impulsivo in gesto simbolico, l’affermazione egoica in espressione creativa.
È un passaggio alchemico, in cui la materia grezza dell’Es diventa linguaggio, arte, parola, incontro.
Forse, la disinibizione ci affascina perché parla di qualcosa che tutti abbiamo perduto: la libertà di non essere ancora incasellati, la possibilità di dire “sì” senza paura.
Ma la vera libertà, quella adulta e piena, non è l’assenza di regole: è la capacità di contenere il proprio fuoco senza spegnerlo.
Quando l’Io riesce a integrare la propria disinibizione, nasce una forma nuova di presenza:
non più l’urgenza di imporsi, ma la gioia di esprimersi.
Non più la trasgressione per negare l’altro, ma la creazione come incontro.
In fondo, ogni percorso di maturazione psichica è un cammino dal caos alla forma — ma una forma che non uccide il caos, bensì lo ospita.
Solo così l’impulso diventa parola, e la disinibizione si trasforma in energia generativa: un modo per dire “io” che non cancella l’altro, ma lo include nel proprio respiro.
Dr. Davide Dellai
P.I. 04157450240
Ordine degli Psicologi del Veneto n. 10528
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