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Il vuoto che ama troppo, quando l’altro diventa necessario

La dipendenza affettiva inizia quasi sempre in silenzio. Non arriva come un uragano, ma come un abbraccio che stringe un po’ troppo. All’inizio è dedizione, poi diventa bisogno, infine sopravvivenza. Dal punto di vista psicoanalitico, ciò che chiamiamo “amore eccessivo” è spesso il tentativo disperato di tenere insieme un sé fragile, costruito attorno alla paura di essere lasciati cadere.

Il cuore della dipendenza affettiva non è il partner, ma una ferita originaria: un’esperienza precoce di abbandono, trascuratezza o mancata sintonizzazione che ha lasciato nel mondo interno un vuoto difficile da nominare. Quando l’altro si allontana – anche solo nei piccoli gesti quotidiani – la psiche risente una forma di allarme antico, come se si riaprisse la stessa voragine infantile. Non si teme la solitudine, ma l’annientamento.

Chi vive dipendenza affettiva tende a percepire l’altro come oggetto necessario, regolatore dell’autostima, garante di un’identità sempre un po’ traballante. Non è raro che la relazione diventi il luogo dove ci si sente “qualcuno”. E quando questo legame vacilla, tutto il corpo interno trema: rabbia, panico, senso di vuoto, impulsi di controllo, implorazione e poi di nuovo colpa. È un circuito emotivo che non riguarda l’amore, ma la sopravvivenza psichica.

A livello relazionale, gli incastri più comuni sono tre.
Dipendente + narcisista: l’uno offre dedizione illimitata, l’altro forza apparente. Si incontrano due fragilità complementari.
Amore a briciole: affetto intermittente che riattiva l’antico schema dell’amore condizionato; si dà quindi affetto o lo si riceve in modo non constante, come certi pattern relazionali antichi hanno insegnato a vivere l’amore.
Co-dipendenza: l’altro diventa “da salvare”, e il sé si definisce  quindi attraverso questo sacrificio salvifico.

Questi incastri funzionano appunto perché ripetono inconsciamente qualcosa di già vissuto: solo che si trova ora la speranza che, almeno questa volta, amando abbastanza, l’altro rimanga. È ovviamente uno scenario psichico più vicino al mito che alla realtà: un tentativo di riparare un dolore antico usando l’unica strategia appresa allora, la fusione.

La terapia psicoanalitica lavora proprio lì: non sul comportamento, ma sulla storia emotiva che lo genera. Il compito non è “lasciare” il partner, né imparare a essere indipendenti, ma riconoscere da dove nasce quella fame. È un processo di ricucitura: dare nome al vuoto, ricostruire un sé più stabile, capace di tollerare la distanza senza dissolversi. Nel tempo, il paziente scopre che l’amore può essere scelta, non più un territorio da presidiare.

La dipendenza affettiva non è una debolezza: è un luogo psichico in cui la paura di sparire supera il desiderio di vivere. Ma quando la ferita trova parole, quando la storia si riordina, l’altro smette di essere un’àncora che trascina. E può tornare a diventare un incontro.

Bibliografia essenziale

  • Antonelli, A. (2022). Le dipendenze affettive: quando amare fa male. FrancoAngeli.
  • Confalonieri, L. (2025). Dipendenza affettiva. State of Mind.
  • Gori, A., Russo, S., & Topino, E. (2023). Autostima, attaccamento e love addiction. Journal of Affective Disorders.
  • Kernberg, O. (1995). Disturbi borderline e narcisistici della personalità. Cortina.
  • Mitchell, S. (1988). Relational Concepts in Psychoanalysis. Harvard University Press.

Dr. Davide Dellai
P.I. 04157450240

Ordine degli Psicologi del Veneto n. 10528

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